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HIKIKOMORI: giovani, ritiro sociale e prevenzione
Alle porte del nuovo millennio,nel 1998, fu lo psichiatra giapponese Saitō a coniare il termine “hikikomori”. Tale definizione si riferisce ad una particolare forma di ritiro sociale che sfocia nella auto segregazione del soggetto all’interno della propria camera (Teo & Alan, 2010). La sintomatologia sembra colpire, nella maggior parte dei casi, adolescenti e giovani adulti, i quali si adoperano intensamente per evitare occasioni che portano ad un contatto fisico e visivo diretto. (Wong, 2009). Secondo lo psichiatra, i segni tipici che portano al riconoscimento del fenomeno sono:
– Ritiro ed evitamento sociale per almeno sei mesi
– Fobia scolare e/o del lavoro
– Abbandono scolastico
– Apatia
– Inversione del ritmo circadiano sonno-veglia
– Comportamento violento in famiglia
– Nessuna diagnosi di schizofrenia, ritardo mentale o altre patologie psichiatriche rilevanti in concomitanza con l’insorgenza del fenomeno
– Dai soggetti che si ritirano, perdendo interesse per la scuola o il lavoro, sono esclusi coloro che continuano a mantenere relazioni sociali
Alcuni fattori di rischio sono rappresentati da bullisimo, cyber bullismo, ma anche elevati livelli di competizione sociale, scolastica e lavorativa (Porcelli, 2020).
Comportamenti tipici degli hikikomori sono stati riscontrati anche nella popolazione italiana: molti adolescenti hanno ridotto al minimo i propri rapporti con il mondo esterno, azzerando del tutto i propri contatti o limitandoli esclusivamente ai canali mediatici. Carla Ricci, ricercatrice presso il dipartimento di Psicologia Clinica dell’Università di Tokyo sostiene che, in Italia, il fenomeno hikikomori sia in crescita, sottolineando l’incidenza delle condizioni sociali che favoriscono uno stato di incertezza, insicurezza e disorientamento, in particolare per quei soggetti che sono emotivamente più predisposti a prediligere una vita di ritiro sociale e relazionale (Ranieri, 2015). La ricerca-intervento effettuata dal “Consultorio gratuito per gli adolescenti ritirati che abusano delle nuove tecnologie” di Milano, ha individuato che circa la metà del campione della ricerca – composto da 139 ragazzi di età compresa tra i 9 e i 24 anni – manifestava comportamenti assimilabili a quelli dei coetanei giapponesi definiti come hikikomori. L’intervento, di carattere clinico e socio – riabilitativo, si è basato sull’incontro con i genitori, interventi domiciliari, psicoterapia individuale e laboratori di diversa natura (Cooperativa Minotauro, 2014). A Napoli, l’ Unità Operativa di Psicopatologia degli Adolescenti (U.O.P.A.) ha definito un protocollo per i ragazzi in autosegregazione. Anche in questo caso i genitori dei giovani sono stati coinvolti nel progetto di cura. La resistenza dei soggetti ad affrontare il contatto diretto è stata affrontata tramite l’utilizzo del telefono, almeno per quanto riguarda i primi colloqui.
A livello preventivo, il ritiro volontario può essere arginato agendo a livello scolastico, familiare ed individuale. È importante dunque agire su più piani, poiché il fenomeno non è rappresentato unicamente da caratteristiche individuali, ma è largamente influenzato dall’ambiente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha suggerito, all’interno delle scuole di ogni ordine e grado, l’attivazione di percorsi formativi fondati sull’educazione alle life skills, ossia le competenze – emotive, relazionali e cognitive – necessarie ad affrontare la vita quotidiana (Bagnato, 2017).
È importante dunque offrire ai giovani possibilità di sperimentarsi in progetti di prevenzione e sostegno che abbiano come fine ultimo quello di riqualificare i vissuti emotivi ed assegnare un nuovo significato al proprio vivere in società.
NEET: Not in Education, Employment or Training. Oltre al fenomeno della disoccupazione
L’acronimo NEET – Not in Education, Employment or Training – è utilizzato e riconosciuto a livello europeo e nazionale al fine di definire la porzione della popolazione giovanile, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che si trova in una situazione di disoccupazione e che, più precisamente, non è impegnata in attività di studio, formazione o ricerca di lavoro (Istat, 2013).
L’essere NEET ha cause molteplici e intrecciate. Studi effettuati in Giappone, Stati Uniti ed Europa, hanno messo in luce l’incidenza sul fenomeno dovuta a svantaggio socioeconomico e basso livello di istruzione, sia individuale che familiare (Ryan, 2001). Caroleo et al. (2018) hanno, però, evidenziato che il fattore scatenante possa essere riscontrato nello squilibrio tra competenze acquisite e richieste del mercato. Ciò porta a ipotizzare che il fenomeno NEET possa colpire anche coloro che hanno un livello di istruzione più elevato. Il contesto socioeconomico gioca un ruolo cruciale, infatti, nel determinare le transizioni del ciclo di vita, in particolare quelle che caratterizzano la formazione identitaria giovanile (Donsì, 2018). La transizione che rappresenta il passaggio dalla giovinezza all’età età adulta, è, ad oggi, dilatata nel tempo e particolarmente complessa e frammentata, poiché caratterizzata da scelte precarie e di cui gli individui hanno solo un parziale controllo. L’ingresso nel mondo del lavoro, secondo Sarchielli (2011) richiede ai giovani di adattarsi, orientarsi e strutturarsi secondo nuove esigenze sociali e individuali, il che porta a vivere il mondo e la propria identità con nuove incertezze. Un contesto costellato da precarietà del mercato si riflette, dunque, in un senso di precarietà a inefficacia interiore ed esteso anche alla visione del proprio presente e del proprio futuro. La ricerca di Nardi et al. (2013) mette in luce come la tematica della temporalità sia pregnante nello studio dei giovani NEET: per questi ultimi il tempo, nonostante non sia occupato da alcuna attività, resta uno spazio vuoto in cui il soggetto non sembra in grado di percepirsi come attivo ed efficace. Il tempo presente risulta dunque vacuo e il futuro non riesce ad essere concretizzato in forma di pensiero. Leccardi (2005) sottolinea quanto, in questi casi, a fare le spese dell’incertezza soggettiva sia proprio il motore della progettualità. Si instaura così un circolo vizioso tra presente e futuro in cui nulla è controllabile e definibile, e ciò porta ad un’inevitabile regressione ed inattività fisica, lavorativa e relazionale.
Il lavoro e il benessere psicologico sono stati messi in relazione da diverse ricerche, le quali hanno concluso che i comportamenti messi in atto – o meglio, non messi in atto – dai NEET, possono incidere sul tasso di benessere psicologico, sul coinvolgimento relazionale e sociale e, infine, sulla salute fisica (Paul & Moser, 2009; van der Noordt et al., 2014; Nardi et al. 2013). Nonostante le evidenze, la relazione tra salute fisica e psicologica non sembra essere lineare: si ipotizza che possa esserci un legame inverso, ovvero soggetti con caratteristiche depressive e tendenti all’inattività possono, di conseguenza, diventare NEET.
L’ipotesi più accreditata è che, comunque, esista un rapporto di circolarità tra malessere, incertezza e condizione di NEET (Noh e Lee, 2017). È importante dunque che siano offerte reti di sostegno che possano aiutare i giovani a reinquadrare la propria condizione di vita, all’interno un contesto che possa essere vissuto come un campo d’azione in cui il soggetto ha un ruolo attivo ed efficace.